A volte capita che certi libri piombino nella nostra vita e vogliano essere letti: sono loro che scelgono noi, non il contrario.
A me è capitato spesso che mi guardassero per anni, con le loro copertine polverose, dall’affollatissima libreria di mia nonna prima che mi decidessi a leggerli o che mi attraessero decine di volte, magnetici, nel loro angoletto durante le mie passeggiate in libreria, prima di lanciarmi a comprarli.
Canne al vento è stato molto più sfacciato nel rincorrermi e attirarmi a sé. Già da tempo una vecchia raccolta di opere di Grazia Deledda, di quelle che qualcuno, di certo mia nonna, si è dimenticato di avere, con la copertina di tessuto impregnata di polvere e la severa foto dell’autrice che ti osserva stampata sopra, mi rincorreva in giro per casa. Mi passava per le mani ogni volta che ero alla ricerca di una nuova lettura e, matematicamente, veniva rimessa al proprio posto, nell’attesa di tempi più adatti ad affrontare la sacralità che trapelava da quelle pagine ingiallite, pensavo.
Poi un giorno una mia cara amica, a cui sono debitrice per almeno la metà dei libri che ho letto e amato, mi regalò una nuova edizione di Canne al vento: niente a che vedere col polveroso volume di mia nonna, sia ben chiaro. Penso sia stata proprio la sua copertina dai colori caldi, col ritratto di una bella donna sarda davanti (non chiedetemi perché, ma non ho mai avuto dubbi che fosse sarda), a vincere ogni mia resistenza, a farmi cedere a quel lungo corteggiamento – quando si dice dar più peso all’apparire che all’essere!
Riscoprire (e riscoprirsi) canne al vento con Grazia Deledda
Mi sono innamorata subito della Deledda, del suo essere donna, autodidatta, letterata e sarda; soprattutto sarda, fino alla punta dei capelli, tanto che, nonostante vivesse già da anni a Roma quando nel 1913 venne pubblicato Canne al vento, ti sembra quasi di sentire il vento della Sardegna sulla pelle mentre lo leggi.
Ora, non posso negare di avere una certa propensione per il pathos, ma la tragicità e la sacralità (si, in questo ci avevo visto giusto) delle pagine della Deledda mi hanno stregato: in una natura bellissima e severa, madre impietosa, l’autrice ambienta la storia fatale della decadenza di una famiglia e di una società.
Mi è sembrato di poter scorgere nei personaggi l’umanità intera, tutte le pulsioni che muovono il mondo: nel contesto di apparente rassegnazione di un villaggio della Barbagia, che sembra cristallizzato nel tempo, agiscono personaggi che non rinunciano a lottare, che non si arrendono ad un destino segnato o che forse, semplicemente, si muovono, con dignità e consapevolezza, proprio verso quel destino.
La scintilla di ribellione, nella famiglia Pintor, scocca con la fuga in giovane età di una delle quattro figlie di un padre dispotico, primo atto di una serie di disgrazie che condurrà la famiglia stessa al declino. Il ritorno al villaggio del figlio della sorella fuggita riaccende il fuoco che sembrava essersi spento col passare degli anni, dopo la morte del padre delle tre sorelle rimaste, lasciando spazio alla rassegnazione di una vita di stenti.
La fuga e il ritorno diventano così forza motrice di tutta la narrazione: una serie inarrestabile di eventi è innescata dal coraggio di chi è fuggito e dalle speranze e dalle debolezze di chi torna a casa.
E’ però nel fedele servo Efix che sembrano incarnarsi e concentrarsi tutte le emozioni dei personaggi che si muovono nell’ancestrale villaggio sardo: le ambizioni di riscatto delle sorelle più anziane, il nuovo desiderio della sorella più giovane, le delusioni e l’amarezza date dell’infrangersi delle aspettative dell’intero villaggio con una realtà che ha il sapore di una punizione divina. Tutto sembra potenziarsi nel servo, la cui esistenza stessa viene travolta dal ritorno del giovane, che riapre ferite mai guarite.
Gli eventi rendono necessari, di nuovo, una partenza e un ritorno, quelli di Efix questa volta: soltanto la sua espiazione, il suo dolore purificatore e il suo sacrificio, potranno riportare la pace e risollevare le sorti della famiglia.
Devo ammettere che non ho resistito a lasciarmi trasportare ancora nella Sardegna mitologica della Deledda, riprendendo in mano quella famosa raccolta di mia nonna e muovendomi a ritroso tra le sue opere: ne Il vecchio della montagna, Elias Portolu, Cenere mi è sembrato di veder nascere e crescere tutta la tragicità e l’universalità della narrativa dell’autrice, che avrebbero trovato maturazione in Canne al vento, assumendo una potenza espressiva sorprendente e aprendole la strada verso il Nobel.
E’ come se Grazia Deledda avesse a lungo cercato le parole più giuste per descrivere cosa fossero per lei gli uomini, e alla fine le avesse trovate: canne sferzate dal vento, apparentemente in balia del destino, ma molto più resistenti di quanto non si direbbe.
Se posso darvi un consiglio, in conclusione, fatevi scegliere, non badate alle copertine.
TITOLO ORIGINALE: Canne al vento
AUTORE: Grazia Deledda
EDITORE: Newton Compton
ANNO: 1913
PAGINE: 184
PREZZO: 6.70
CONSIGLIATO A: chi vuole respirare la Sardegna, senza alzarsi dal divano!